BRAVI RAGAZZI - soggetto film


BRAVI RAGAZZI (film)

Il fatto (tratto da una storia vera)
Un gruppo di adolescenti decide di compiere un atto vandalico ai danni del proprio liceo, ma la situazione scappa di mano, diventando più preoccupante del previsto e dalle conseguenze inaspettate.


Soggetto


Eravamo dei bravi ragazzi. Tutto si poteva dire ma non che non fossimo dei bravi ragazzi. Tutti appartenenti  a delle buone famiglie. Delle famiglie piccolo borghesi, ne poveri ne troppo ricchi, benestanti medi.
Ben educati, carini, sportivi, senza grilli per la testa almeno apparentemente.
Frequentavamo il liceo scientifico di una cittadina a dieci chilometri da Milano. Una tranquilla cittadina del nord Italia anche lei piccolo borghese. Era il 1982 e avevo 16 anni.
Nel 1980 parecchie vite avrebbero cessato di esistere sopra i cieli di Ustica, nella stazione di Bologna e davanti alla tv: nasceva Canale 5. Nel 1981 moriva Bob Marley e Ali Agca sparava al Papa Giovanni Paolo II. Le BR sequestravano l’assessore democristiani Ciro Cirillo e il generale Dozier, poi liberati. Nel 1982 Roberto Calvi venne trovato impiccato a Londra e la mafia assassinava Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Nascevano MTV, il pentapartito di Craxi, l’aids, radio Dee Jay, i paninari, Italia 1 trasmetteva il Drive in e non aveva ancora il suo telegiornale, per fortuna.


Noi avevamo le nostre moto 125 nuove di pacca conquistate con i bei voti a scuola e con una condotta di vita che era motivo di orgoglio da parte dei nostri genitori. D’estate tornei di tennis, d’inverno gare di sci e nelle stagioni intermedie saggi di chitarra classica e scuole di teatro. Si perché oltre che sportivi eravamo anche attratti dalla cultura che volevamo mettere in atto in prima persona. Non eravamo, per esempio, per niente appassionati di calcio.
Il liceo che frequentavamo faceva parte di un centro omnicomprensivo molto moderno per quegli anni che comprendeva altri istituti come geometri e ragioneria e occupava una grande superficie in quanto era sviluppato in edifici alti solo un piano. Il preside e gli insegnanti erano tipi tosti, simpatici, molto giovani, tutt’altro di quello che si  può aspettare un ragazzo che finisce le scuole medie e si prepara per affrontare quelle superiori. Alle volte ci capitava addirittura di trovare i prof alle nostre feste che si ubriacavano con noi, anche se il giorno dopo, durante le interrogazioni sembravano essere meno amici visti i trattamenti e i voti. E questo forse fu uno dei motivi del nostro futuro incazzamento e successiva ribellione. Ma come? ci domandavamo, tanto amici la sera e tanto stronzi la mattina? Ma non fu solo questo a far svegliare in noi i sonnecchianti grilli che avevamo nella testa. Nel frattempo, comunque, tutto procedeva tranquillamente: noi bravi a scuola e i nostri genitori contenti. Ma così tranquilli e bravi forse non lo eravamo.


Cominciammo in sei o sette ad isolarci dal resto dei compagni e guidati da quello che poi sarebbe diventato il nostro futuro capo, si iniziò a parlare di politica. Eravamo affascinati dalle azioni e dai pensieri delle Brigate Rosse. Pensavamo che forse solo attraverso i loro metodi si sarebbe potuto cambiare qualcosa. Il nostro nemico, in questo caso, non poteva essere lo Stato ma qualcosa che lo ricordarlava e che era a noi molto più vicino: la scuola. Cominciammo così a parlare di questo. Invece di passare le serate come la maggior parte dei nostri coetanei, cioè bar, feste, discoteche e ragazze, noi ci ritrovavamo a parlare di cosa avremmo potuto fare di eclatante per cambiare qualcosa. Nel frattempo il più grande di noi, il capo (era anche il nostro maestro di tennis per cui subivamo già il suo fascino da leader, senza contare che culturalmente era anche quello più preparato) cominciò a portarci dei libri scritti da ex brigatisti che diventavano materiale delle nostre discussioni serali. Un giorno ci confessò che gli sarebbe piaciuto andare a parlare con dei brigatisti detenuti durante l’ora di colloquio in carcere; un po’ come andare a ripetizione di una materia in cuisi è scarsi. Insomma invece di avere i soliti idoli che può avere un ragazzino di quell’età, come sportivi e rockstar, a noi piacevano i ribelli, tutto questo sempre condito dalla nostra incoscienza e immaturità. E poi c’era il nostro nemico, la scuola e i suoi falsi e stronzi professori. La scuola che ci opprimeva, che faceva la sua funzione di controllo sociale: come fai a pensare ad altro se devi studiare tutto il giorno? Non fa una piega no?
Poi una mattina per una pura coincidenza successe una cosa che raramente accadeva. Dopo una serata finita tardi ad una festa, ci rendemmo conto, dato il livello di rincoglionimento, di avere sbagliato completamente una versione di un compito in classe di latino. Sarebbe stato sicuramente un 4 e questo avrebbe abbassato troppo la nostra buona media. Che fare? L’idea venne in mente al nostro capo. L’insegnante di latino non si portava a casa i compiti da correggere,  li lasciava in un armadietto e li correggeva nelle ore buche durante la giornata. Bastava rifare bene la versione e andarla a sostituire nell’armadietto. Quando? Di notte, ovviamente, era il momento migliore. L’idea ci eccitò moltissimo. Quel giorno prima di uscire dalla scuola lasciammo una finestra incastrata in modo che non si potesse chiudere per poterla così riaprire durante la notte. Scavalcammo i bassi cancelli, entrammo e sostituimmo i compiti. Che figata! Il giorno dopo i nostro bei voti atterravano spavaldi sui banchi e noi non solo sempre bravi in latino ma anche orgogliosi del fatto che non ci eravamo nemmeno fatti beccare dal guardiano, che viveva all’interno di quell’enorme scuola e che ogni tanto si faceva il suo giretto di controllo notturno.
Ma questa era un’azione troppo egoistica per il nostro altruistico spirito ribelle e così ci venne un’altra idea. Come potevamo salvare tutte quelle persone che a causa dei brutti voti rischiavano di essere bocciati? Semplice: facendo sparire i registri di classe, annullare la storia di uno studente, riscriverla. E come, rubandoli? No incendiandoli. Per noi era come incendiare le leggi di uno Stato contro i più deboli, gli esclusi, i bocciati.
Cominciammo a studiare meglio gli orari del giro del custode attraverso varie incursioni di prova che facevamo sempre di notte. E la cosa diventava sempre più eccitante, altro che feste o ragazzine noiose. Così un giorno i professori si ritrovarono con un bel mucchietto di cenere davanti.
La storia di ognuno di noi era stata annullata e si ricominciava da capo, si doveva riscriverla, almeno secondo noi. Già, perché di registri ne esistevano due copie ma nonostante questo si cominciava a parlare di noi. Stavamo diventando i misteriosi eroi del liceo. E ovviamente la cosa ci gasava sempre di più. Non si può dire certo che marinavamo la scuola o non la frequentavamo visto che c’eravamo dentro di giorno e di notte. Le nostre incursioni-prove per i prossimi attentati aumentarono sempre di più e aumentava anche il nostro confuso senso di ribellione.
A questo punto alla nostra organizzazione serviva un nome e lo trovammo: Avanguardia Studentesca con una A a forma di stella tipo quella delle BR con attaccata una S.
Le nostre riunioni cominciavano ad aumentare, dovevamo fare qualcosa di più grande, qualcosa di cui si parlasse a lungo, insomma un’azione memorabile. Alle riunioni il nostro capo cominciò a portare testi tipo “L’ape e il comunista” e così si iniziò a stilare un nostro volantino programmatico. Ricordo che aveva una serie di punti tra i quali il 6 politico (tanto poi è la vita che ti selezione, non la scuola), la laurea obbligatoria per i docenti (non possono insegnare), l’introduzione di materie che potessero avvicinare al mondo del lavoro, l’abolizione dell’ora di religione e altre cose che non ricordo.
Avevamo il nostro testo e per farlo conoscere pensammo di fare un’azione vandalica incendiando qua e là l’istituto. Ci preparammo benissimo. Prove dei tempi di percorrenza all’interno della scuola fatte con i cronometri, calcolo dei giri di sorveglianza del custode e rubammo anche le piantine della costruzione per studiare bene gli eventuali punti di fuga di emergenza. Studiammo anche tutti i rumori che di giorno non si potevano sentire onde evitare di essere spaventati da qualcuno di sospetto e inatteso come accensione caldaia, scatti strani di grandi orologi e vari timer che ogni tanto ci facevano prendere inutili spaventi. Inoltre ci cambiammo i nomi nel caso avessimo dovuto chiamarci ad alta voce. Il mio non lo ricordo ma il capo scelse Gesù. Ve lo immaginate un ragazzo che di notte corre dentro ad un liceo urlando “scappa, scappa Gesù”.
Eravamo pronti, le prove erano state fatte più volte calcolate al secondo. Per l’incendio ovviamente scegliemmo la benzina e due o tre di noi erano stati incaricati di portare delle taniche piene.
Stabilimmo la data dell’attentato. Uno di noi, il giorno prima, non se la sentì più e ci abbandonò. Sospettammo che fui lui, in seguito, a farci beccare ma non fu così. Ci abbandonò perché era l’unico fidanzato e la data scelta, per caso, era il 14 febbrario la notte di San Valentino. La sua fidanzata non gli permise di passare quella sera con gli amici.
Fazzoletti sul volto accendemmo le moto e via. C’era una gran nebbia e faceva freddissimo. Quella sera, a nostra insaputa, nella palestra della scuola c’era una partita di basket. Erano scoppiati dei tafferugli tra le tifoserie ed erano stati chiamati i Carabinieri. Così dovemmo aspettare che se ne andassero. Fuori i Carabinieri dentro noi. In più ci venne presentato un altro ragazzo che non aveva mai partecipato a nessuna riunione. Era l’unico vero vandalo della situazione assoldato dal capo all’ultimo momento tanto per avere la sicurezza di avere fra di noi almeno un professionista. Entrammo e lì si scatenò tutta la nostra violenza. Sfasciammo tutto quello che trovavamo a portata di mano come indemoniati. Solo una cosa non andò come nei patti stabiliti.
Siccome avevamo il timore che gli addetti alla benzina si sarebbero potuti dimenticare di portarla, ognuno di noi ne portò un po’. Come quando si pensa che un amico si possa dimenticare di portare del vino ad una cena e lo porti tu al suo posto. Solo che quello non era vino era benzina ed era davvero tanta, una settantina di litri circa. Ma a quel punto che cosa si poteva fare…e così decidemmo di utilizzarla tutta senza pensare alle conseguenze.
Io e gli altri più piccoli avevamo l’ordine di allontanarci prima di tutti. La  benzina fu sparsa per tutto l’edificio ed il responsabile dell’accensione – il più coraggioso e robusto di tutti – fece la sua bella scia fino all’uscita, la scia che gli serviva come miccia. Mi allontanai prima dell’accensione. La miccia si accese ma la benzina all’interno della scuola no: esplose. Un liquido infiammabile chiuso in una struttura con le finestre chiuse non prende fuoco, non si incendia, esplode. E questo noi non lo sapevamo. Io avevo già scavalcato il cancello, sentii il boato e me ne tornai a casa di corsa. A letto, una volta un po’ più calmo, cominciai a pensare che forse avevamo combinato qualcosa di un po’ più grande del previsto. Non avevamo bruciato qua e la, avevamo praticamente fatto saltare per aria una scuola e i quattro giorni che i pompieri ci misero per riportarla alla normalità ne erano la prova.
Il giorno dopo, ovviamente. Ci presentammo regolarmente a scuola come se nulla fosse successo.
Quello che aveva innescato la miccia, a causa del calore sprigionato dall’esplosione, perse la maggior parte dei capelli. Ma quella sera per fortuna non so se l’Inter o il Milan subirono una sconfitta e lui riuscì a giustificare quella chioma con la perdita di una scommessa pagata in quel modo.
Tutti gli studenti, i professori, forze dell’ordine e i pompieri, sfiniti da una notte di lavoro, erano riuniti nell’unica struttura non danneggiata: la palestra. Noi tutti insieme schierati  in fondo cominciavamo ad ascoltare la moltitudine di assurde supposizioni che tutti facevano sull’accaduto e davamo ragione a tutti. Tutti cercavano di analizzare quel volantino. Anche se erano stati sequestrati quasi tutti qualche copia era riuscita a finire nelle mani di qualche professore . Furono giorni di continue discussioni e assemblee. Tra di noi il pelato era quello più in difficoltà perché doveva far finta di essere dispiaciuto più per la sconfitta della sua squadra che per la semi scomparsa della scuola. Fino alla fine dell’anno non si fece che parlare di quello che era successo. (vedere giornali del periodo).
L’avevamo combinata davvero un po’ troppo grossa. I Carabinieri non facevano altro che rompere i coglioni agli studenti secondo loro sospetti; quelli con i capelli lunghi o che si facevano qualche canna. Noi, insospettabilissimi, finimmo l’anno scolastico con i soliti buoni voti, pronti per i tornei estivi di tennis e la solita fantastica estate al mare.
Erano due le cose a cui pensavo frequentemente mentre bordeggiavo con il mio windsurf: le prima era se veramente quella sarebbe stata la fine di quella storia, la seconda era un piccolo senso di colpa per quei rettili che avevano trovato abbrustoliti. Nei giorni dell’attentato all’interno della scuola c’era una mostra di rettili e qualcuno di loro non vide l’alba successiva. Sospendemmo riunioni ed incontri e ci dammo appuntamento per l’inizio del successivo anno scolastico.
Ci rivedemmo tutti molto abbronzati e contenti che nessuno ci aveva scoperto. Eravamo solo un po’ delusi dal fatto che i nostri volantini erano stati praticamente tutti sequestrati e la stampa, a parte la cronaca del fatto, non se ne era occupata molto. Il capo era ancora molto agguerrito e incoraggiato dal fatto che l’avevamo passata liscia. Ma a parte il danno le nostre parole non avevano avuto l’effetto desiderato. Cominciò a parlarci dei suoi progetti futuri. Stava prendendo contatto con altri studenti come noi di altri licei. Voleva ingrandire l’azione ma soprattutto voleva ridistribuire il volantino.
Io cominciai a spaventarmi un po’ e pensai di abbandonare tutto e tutti ma non lo feci e andai avanti. Su una cosa eravamo tutti d’accordo: basta benzina, neanche se avassimo avuto la moto in riserva.
Rifacemmo un bel po’ di fotocopie del volantino e decidemmo di fare un’altra incursione. Ma ancora una volta la nostra violenza si scatenò e oltre a lasciare i volantini rompemmo quasi tutti i vetri delle finestre con i pezzi di ceramica delle candele vecchie delle moto legate a delle corde.
Eravamo delle furie. Quelle corde giravano come eliche contro i vetri e li rompevano senza fare rumore perché la ceramica frantuma i vetri con un tonfo muto senza farli cadere. In compenso caddero molti volantini.
Era il novembre 1982. Il nostro capo continuava a progettare altri “colpi” ma questa volta cominciavo ad essere davvero spaventato e piano piano abbandonai le riunioni, cosa che fece anche quanlcun’altro.
Poi un pomeriggio di qualche giorno prima di Natale qualcuno suonò il citofono di casa. Ero da solo. Chiesero di me, mi domandarono se ero da solo e mi dissero di scendere e chiudere la porta. Ad aspettarmi sotto casa c’erano i Carabinieri, per fortuna in borghese che mi avrebbero portato in caserma per delle comunicazioni. Mi fecero sedere davanti ad una scrivania e un maresciallo mi elencò esattamente tutto quello che avevo fatto all’interno di quella scuola, i nomi degli altri, com’ero vestito a altri favolosi perfetti dettagli. Mi chiesero se confermavo le loro ipotesi e io ebbi il fiato solo per dire due lettere: si. Poi mi dissero di tornare a casa.      
Incredibilmente eravamo stati scoperti. Fummo sospesi un anno dalla scuola, scandalo e incredulità in tutto il paese. Mia madre svenne. Niente male come regalo di Natale, no? Non potevo allontanarmi da casa e dopo poco più di un mese mi arrestarono. Non so perché passò tutto quel tempo da quando ci scoprirono a quando ci arrestarono…cose tecnico legislative come venni a sapere più tardi. A questo punto vi chiederete come fecero a scoprirci? Facile: per un banale errore.
A casa di uno di noi cominciarono ad arrivare delle strane telefonate da parte dei Carabinieri. Stavano svolgendo delle indagini che non avevano niente a che fare con in nostri fatti, roba di collegamenti di antifurti con la caserma. Ma questo nostro amico si spaventò e pensò di essere braccato. Non eravamo dei veri malviventi abituati al peggio e così pensò di andare a confessare tutto.
Mi misero davanti un mandato di cattura. Filo-terrorismo, atti vandalici rivendicati da un volantino e associazione a delinquere per aver costituito la fantomatica Avanguardia Studentesca.
Non possedevo più la mia libertà e di conseguenza non potevo più uscire da quella caserma.
In poco tempo furono arrestati tutti gli altri. Mi ricordo di uno di noi che una volta visto il mandato di cattura lo piegò, lo mise in tasca e si diresse verso la porta d’uscita della caserma dicendo che lo avrebbe portato ai genitori. Il maresciallo cercò di spiegargli per più di una volta che non poteva uscire da lì. Non aveva capito che era stato arrestato. Poco dopo arrivò anche quello che non avevamo conosciuto se non la sera stessa dell’incendio e con il volto coperto. Ci presentammo davanti alla cella con grande nervosismo da parte dei Carabinieri che pensavano che ci fosse ancora rimasta la voglia di scherzare. Mi chiusero nella cella della caserma insieme a quello che voleva portarsi a casa il mandato di cattura. C’erano due panche di legno che facevano da letto e nessuna finestra. Non ci facevamo mai spegnere la luce neanche di notte e dormivamo con dei fazzoletti sugli occhi. Gli stessi fazzoletti che avevamo usato per coprirci il volto dal naso in giù ora li usavamo per coprircelo dal naso in su. Ci venne improvvisamente paura del buio. Un buio che ormai circondava le nostre menti.
Ai nostri genitori fu concesso di portarci, però senza poterci vedere, dei libri con i quali passavamo le giornate. La sera ci aprivano la cella e ci facevano cenare insieme a loro. Visto che gli facevamo pena ci facevano vedere anche un po’ di tv e come premio una bella mano a scala 40.
Io e il mio amico giocavamo in coppia in modo da formare un solo avversario. Chiudevamo sempre prima di loro ma lui non voleva mai mettere giù le carte. Per gentilezza e soggezione voleva far vincere uno di loro ma non c’era niente da fare, vincevamo sempre noi anche dopo alcune mani a vuoto. Dopo tre o quattro partite vinte ci richiudevano in cella. Sentivamo sempre le radio collegate con le volanti e li capimmo che le barzellette su di loro erano vere. Ce ne era uno che quando rientrava non riusciva a togliersi la fondina della pistola, ci metteva 10 minuti e alle volte rischiava di strozzarsi con quei grossi elastici. Comunque fummo trattati bene.
Poi un giorno ci dissero che saremmo stati trasferiti in un carcere. Cominciai a pensare veramente al peggio. E’ finita, pensavo, se ora ci portano in un carcere è finita. Sul cellulare dei Carabinieri fui ammanettato ad un altro mio amico, perché quello con cui avevo condiviso la cella della caserma era diventato maggiorenne in quei giorni ed era destinato al carcere dei grandi. Io e l’altro eravamo rimasti gli unici due minorenni e ci aspettava il carcere minorile. Cazzo il carcere. Ammanettati dentro un cellulare in direzione di un carcere. La cosa cominciava a farsi seria. In fondo, a parte l’isolamento, nella cella della caserma non si stava così male e perlomeno non dovevi confrontarti con nessuno.
Arrivammo al carcere. Ci consigliarono di non dire che eravamo studenti (lì dentro non avremmo trovato colleghi) e ci fecero lasciare i libri ed altre cose, compresi lacci delle scarpe e cintura del pantaloni che li dentro possono diventare armi pericolose, in un armadietto.
Ci misero in cella – con i letti inchiodati ai pavimenti e vetri di plastica – insieme ad uno che aveva appena sparato ad una donna con una Magnun 357 e aspettava che il padre uscisse dal carcere per organizzare un bel colpo. Poi ci furono le presentazioni con il capo del braccio, quello che stabiliva cosa si poteva o non potava fare lì dentro a prescindere dalle autorità. Entrava ed usciva dal carcere con la stessa frequenza di un impiegato di banca che prende la metropolitana per andare a lavorare.
Capimmo subito che nessuno ci avrebbe fatto niente; eravamo troppo sfigati e non all’altezza per delinquenti del genere ed eravamo sempre esclusi dalle discussioni su quali pallottole errano migliori per sparare alle gambe. Si misero a ridere quando raccontammo il nostro fatto e ci commiserarono.
Di giorno le celle erano aperte e si poteva giocare a calciobalilla o guardare la tv, ovviamente il telecomando ce l’aveva sempre il capo del braccio. Per i giorni che rimanemmo lì dentro coprimmo tutti i turni degli altri per la pulizia dei bagni. Così aveva deciso il capo e poi cosa volevi dire a uno che parlava di armi e omicidi come un tifoso parla di calcio, che rubava un paio di auto al giorno, che aspettava l’uscita del padre dal carcere come io aspettavo il mio a casa quando tornava dal lavoro e che aveva una faccia che non avrebbe sfigurato dietro le sbarre di un’aula bunker di un maxi processo a Cosa Nostra?
Comunque tutto andò bene e dopo qualche giorno ci liberarono.
Le settimane dopo l’uscita dal carcere furono terribili. I miei genitori mi guardavano come un pazzo e i miei amici erano allibiti. A casa per tutto il giorno squillava il telefono, erano avvocati e Carabinieri, Carabinieri e avvocati. Si stava aspettando il processo. Mi iscrissero come fantasma ad una scuola privata. Fantasma perché non potevo risultare iscritto in nessuna scuola d’Italia, ma sicuramente era meglio che rimanere a casa tutto il giorno a non fare nulla. Ovviamente non potevo rivedere i miei amici filoterroristi. Il finto anno di scuola finì e iniziò il processo. Rividi tutti in quell’ aula del tribunale.
Per fortuna e per grande abilità degli avvocati non ci diedero l’associazione a delinquere. I più grandi furono condannati a due anni e quattro mesi, al limite della condizionale. A quelli più piccoli riconobbero il fatto che eravamo stati plagiati dai più grandi, un pratica dei rincoglioniti. Assolti per incapacità di intendere e volere. Fummo riammessi a frequentare la scuola.
La Provincia, proprietaria degli immobili danneggiati si costituì come parte civile al processo e volle il risarcimento dei danni che i nostri genitori dovettero pagare. In pratica mi sono giocato un bell’appartamento, ma proprio bello, a 17 anni, senza contare spese processuali, avvocati e scuole private.
Finii il liceo e fui così fortunato che potei anche iscrivermi all’università. Scienze politiche, volevo fare il giornalista.
Ci misi molti anni a riconquistare la fiducia dei miei genitori. Ogni volta che uscivo mi guardavano come se avessi una bomba in tasca. Sono stati molto buoni con me, avrebbero potuto essere molto più severi. Ma con delle buone azioni ed un comportamento tranquillo, per esempio studiando diligentemente all’università, ricominciarono a guardarmi in modo normale. Di cosa pensavano tutti gli altri sinceramente non mi interessava. Non rividi più nessuno della banda e non ebbi più loro notizie. La mia vita rientrò nei binari della normale vita piccolo borghese. Addio BR e pensieri ribelli. Cominciai a fare il giornalista.
Un giorno il direttore di un giornale per cui stavo lavorando mi incaricò di fare un servizio sulle carceri minorili. Ovviamente non sapeva nulla della mia storia. Dovetti intervistare il direttore del carcere dove ero stato anni prima. Rientrai in quel posto e a fine intervista non ce la feci a raccontargli la mia storia. Lui si commosse come un padre e fu felice di constatare che in fondo fu solo un errore di gioventù e che alla fine ero stato e rimanevo un bravo ragazzo.
Mentre me ne stavo uscendo, in modo ben diverso dall’ultima volta, mi venne in mente uno dei personaggi più assurdi che conobbi lì dentro.
Lo avevo soprannominato il Grande Raccontastorie. Grande perché era alto quasi due metri, raccontastorie perché passava le sue giornate cercando di attirare l’attenzione su di sé, raccontando e disegnando delle storie piene di meraviglie.
Si vedeva subito che non era uguale agli altri. Non aveva negli occhi l’ombra della cattiveria. Potevano esserci le stesse sfumature di una vita disgraziata ma non quelle del fuorilegge.
Nonostante la sua stazza sembrava più indifeso, più debole, meno sicuro degli altri, ma non subì nessun affronto nemmeno dal capo dell’ala. La lentezza del passo, i lunghi ricci che gli coprivano parte del viso, la barba lunga tagliata qua e là e delle mani da pianista gli conferivano un’aria al limite del fiabesco. Fu uno dei pochi ad arrivare lì dentro con le scarpe pulite, la maggior parte degli altri non riuscivano a togliersi le macchie di sangue in tempo. Mi sarebbe piaciuto averlo come compagno di cella al posto di quel mezzo assassino che mi era capitato, ma richieste del genere erano impossibili da fare. Fu una delle poche  persone con le quali parlai in quei giorni. Il Grande Raccontastorie faceva il pastore intorno alle colline di Bergamo. Non avevo mai conosciuto un pastore e pensavo che non avrebbero neanche potuto essercene di così giovani. E poi mi chiedevo: che cosa avrebbe potuto combinare un pastore per finire qui dentro? Aveva rubato uno specchietto retrovisore di un auto. Durante la sua breve vita si era visto così poche in faccia che quando capitò davanti a quello specchio lo rubò. I Carabinieri lo fermarono mentre se ne stava tornando  sulle sue colline. Gli chiesero che cosa stava facendo con quello specchietto in mano, dove l’aveva preso, dove stava andando e dove abitava. Lui rispose che voleva solo vedersi allo specchio, che ne aveva preso uno da un auto senza rompere nulla ma solo scollandolo e che se ne stava tornando dal suo gregge. Sottolineò anche che era contento di aver scoperto di avere ancora un aspetto piacevole e che era disposto a restituire l’oggetto del reato.
Lo arrestarono immediatamente. Del suo colpo non ne parlò a nessuno. Non gli avrebbero creduto. A quelli che gli domandavano che cosa avesse fatto per essere lì, rispondeva che stava ammazzando uno perché si era rivolto male alla sua ragazza: giustificazione appena sufficiente per quelli del quinto raggio, ma lo lasciarono comunque in pace.
La sua occupazione preferita era disegnare e raccontare delle storie. Non guardava la televisione, anzi non si accorgeva neanche quando era accesa, non giocava a ping - pong, odiava il calcetto per il rumore e le voci alte dei giocatori. Le uniche cose che chiese all’assistente sociale furono un quaderno, dei pennarelli colorati e dello scotch. Strappava i fogli centrali del quaderno in modo da averli doppi e poi li univa con lo scotch fino a formare dei fogli lunghi anche quattro metri, e ci disegnava sopra delle storie. Scene per scena, movimento per movimento, testo compreso, come in un perfetto story-board cinematografico. Disegnava ginocchia a terra, sempre da solo. Poi arrotolava il foglio e andava alla ricerca di qualcuno che lo ascoltasse.
Un pastore che racconta delle favole a dei delinquenti. A parte me non riusciva a riscuotere molto successo. E così ginocchia a terra tutto il pomeriggio ad ascoltarlo.
E se ti distraevi ricominciava da capo, perché non si potevano perdere passaggi.
Un giorno subì un affronto da parte di uno che era appena arrivato. Gli era andata male una rapina in un centro commerciale a causa di un ritardo di un complice ed era abbastanza nervoso. Quando vide quei fogli per terra ci camminò sopra distruggendoli in cento pezzi. Il Grande Raccontastorie non ebbe nessuna reazione, non disse nulla, non fece nulla. Lo guardò fisso negli occhi, e mentre tutti pensavano che quello sarebbe stato l’inizio di una mega rissa, il nuovo arrivato raccolse tutti i pezzettini di carta come sotto ipnosi. Quando finì, il Grande Raccontastorie ricominciò a strappare e scocciare nuovi fogli.
Poi un giorno ci liberarono insieme. L’avviso arrivò durante l’orario di pranzo, tra parentesi neanche così male. Stavo uscendo da quel posto. Ci riconsegnarono i nostri lacci della scarpe, cinture e le altre cose delle buste gialle.
Ci accompagnarono all’uscita. Arrivammo alla porta senza parlare. Fuori c’erano i miei genitori che mi aspettavano. Dietro di noi si chiuse la porta del carcere e davanti a me  si aprì quella dell’auto. Il Grande Raccontastorie rimase sempre in silenzio. Non gli chiesi neanche se voleva un passaggio.
Se ci fosse stato qualcuno a vederci lì fuori, avrebbe sicuramente pensato che io ero finito lì dentro per errore e che invece uno così chissà che cosa aveva combinato. Anzi, uno così di carcere se ne sarebbe meritato molto di più.
Mi salutò con un braccio intorno alle spalle e mi disse: “Buona sorte amico”.
Poi guardò in alto il cielo, poi a destra, poi a sinistra, poi in basso, come se tutti i  luoghi dove aveva diretto il suo sguardo potessero andare bene per la sua direzione. Si incamminò nella direzione opposta a quella della mia auto. Prese quella strada senza esitazioni come se fosse quella giusta. Lui tornò alla sua vita e io alla mia.
Lui era tornato libero. Io non lo so.